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Al di là dell’Europa [Eὐρὡπη] (1992)*
di Jean-Luc Nancy

25 novembre 2021


Parlare, oggi, di “Europa culturale”, di “Europa delle culture” esige prima di tutto una seria rivalutazione dell’uno e dell’altro termine. Se, con “cultura”, si intendono gli “affari culturali”, ossia la gestione, statale o meno, dei divertimenti di qualità, la panoramica delle poste in gioco è presto fatta.
È del resto il motivo per cui la cultura in questo senso non è che la quinta ruota della carrozza comunitaria o paracomunitaria. Ma “cultura” è un termine che tende, da qualche tempo, a giocare anche un altro ruolo. Spesso si sostituisce a quanto avremmo chiamato un tempo lo “spirito” di una civiltà, di una società o di un popolo. Lo “spirito”, o la maniera in cui ci si appropria di un senso, di una storia o di un destino, in cui si orienta e configura uno spazio di esistenza, e in cui si declina un’identità.
Dal punto di vista si questo valore del termine, quando si parla di “cultura europea”, esiste un presupposto ampiamente diffuso e ampiamente tacito — almeno in Europa: la cultura europea, nell’armoniosa diversità dei contrasti, è la cultura per eccellenza, in quanto costituisce l’autentica essenza o identità di questo continente, e al contempo perché questa identità è essa stessa essenzialmente quella dell’universale. In maniera più o meno confessata, l’Europa, o gli Europei, si pensano come il soggetto dell’universale. (In più, probabilmente, la Francia ha la tendenza a pensarsi come il soggetto dell’Europa).
In questa prospettiva il senso del termine “Europa” tende a confondersi con quello di “cultura” — e le altre culture arretrano in una posizione più o meno etnologica, a meno di essere individuate come estensioni di quella europea (America del Sud) o come i suoi figli sviati (America del Nord).
La cultura europea si vanta di essere non soltanto quella che ha dischiuso al mondo la dimensione dell’universale (in senso proprio, il “cattolicesimo”), ma anche quella che da sempre si è edificata su una felice ripartizione interna delle proprie differenze (popoli, lingue, rappresentazioni).
L’Europa sarebbe l’identità per eccellenza, ossia l’identificazione dialettica delle differenze che si superano mantenendosi. È la stessa cosa che il soggetto hegeliano.
Ed è la stessa cosa che, a distanza dai dissensi politici ma raddoppiando il consenso circa l’evidenza economica, costituisce una sorta di baso continuo dell’Europa in cammino: l’evidenza della propria identità, della propria soggettività e della propria personalità.
Questa stessa evidenza può essere chiamata con vari nomi, per esempio “Illuminismo”, “Ragione”, “Umanesimo”, “Diritti dell’uomo”, “Democrazia” oppure “Mitteleuropa” (Europa di mezzo, ma anche della mediazione), o anche con nomi propri, Dante, Cervantes, Shakespeare, Voltaire, Goethe, Kafka, Joyce: può essere simbolizzata come l’Europa delle cattedrali, quella delle Università, quella del “Clavicembalo ben temperato”, quella dell’“Inno alla gioia”, quella del romanzo, ecc.
È così che va, occorre pur dirlo, un discorso sommesso, ma costante e consensuale, una sicurezza “comunicazionale” che replica, una volta ancora, quella del mercato, e che finora è l’unico ricorso “spirituale” delle proiezioni politiche (lo “spirituale” è esso stesso, in questo senso, una categoria di questo discorso). Inutile insistere sull’impotenza di tale ricorso, sia di fronte alle lacerazioni reputate “identitarie”, che di fronte alla posta in gioco di un’unione politica.
È tempo di chiedersi se tale evidenza non sia, a sua insaputa, un poco appassita, e se il violento dissenso identitario che ci attraversa non sia l’effetto del debole tenore di questo consenso.
Giacché, infine, e come Jan Patocka (figura europea come poche) aveva potuto dire già molto tempo fa, quell’Europa, quella cultura, è per parecchi versi alle nostre spalle. Essa giace da qualche parte nella storia, dietro le guerre “mondiali”, dietro Auschwitz, dietro le guerre di “decolonizzazione”, dietro l’esaurimento o il rovesciamento delle rivoluzioni, e dietro la virata ecotecnica che ha già fatto uscire l’Europa dall’Europa. (La Francia è senza dubbio una degli ultimi a rendersene conto, dal momento che la sua cultura è per molteplici aspetti una delle più lente a muoversi — anche se essa è anche, nel medesimo tempo, un luogo di apertura e di rotture).
Ciò in cui l’Europa si è già oltrepassata, messa fuori di sé (e ciò che consente che possa a buon diritto essere oltrepassata dal cuore delle buone intenzioni e delle buone coscienze europee), è in un certo senso l’universo stesso, la cattolicità che l’Europa ha diffuso sul pianeta: è l’“occidentalizzazione del mondo” (riprendo deliberatamente il titolo del libro di Serge Latouche), ma che ormai ha raggiunto un’estensione e un’intensità tali da trasformarsi essa stessa in mondializzazione dell’Occidente, e, dunque, in mondializzazione di quell’Europa che aveva iniziato l’Occidente.
Per questa duplice ragione — che l’Europa è già al di là di se stessa, e che il mondo rifluisce su di essa — è diventato necessario riesaminare il tenore di questi nome, Europa.
Il che non vuol dire in maniera semplicistica che tutti i sensi che gli si sono potuti attribuire, siano caduchi. La questione è, naturalmente, molto più complessa.
Ma ciò vuol dire, nondimeno, che tutti questi sensi appartengono a una circoscrizione generale di senso, a una “cultura” che ha già, in quanto tale, chiusa la sua circolarità storica, completata la sua figura, e che è già, che lo voglia o no, che lo sappia o no, in attesa di un’altra cultura.
Ma non sappiamo che cosa voglia dire “mondializzazione”. Diventa chiaro che non si tratta affatto della semplice “uniformazione” (spesso battezzata “americanizzazione”), e che per certi versi è il contrario.
Ma se il mondo è un luogo di soggiorno e di percorso, uno spazio di senso con i suoi punti di repère, i suoi orizzonti, un kósmos e un éthos, allora noi non abbaiamo più o non abbiamo ancora un mondo. La cosmologia è chiusa dopo la teologia — ed è qui, precisamente, che ci attende l’evento, l’invenzione di un’altra cultura.
Di un’altra Europa, quindi. Non c’è ancora evento dell’Europa. Ce ne sarà uno il giorno in cui “Europa” la si penserà a partire dalla “fine dell’Europa”, a partire dalla chiusura delle estremità dell’“Europa”, per passare al di là, lontano, ridiventata capace di grandi scoperte. Eὐρὡπη è una delle possibili origini, in greco, del nome d’Europa (un’altra è il semitico ereb [1]). Questo termine può significare: che risuona, o che guarda, lontano. Vi sono indubbiamente, oggi, buone ragioni per domandarsi se l’Europa che fa tanto rumore in Europa risuoni, guardi abbastanza lontano al di là di se stessa. Gli altri, i lontani, hanno senza dubbio di che insegnarci a questo proposito.
Diventa urgente smettere di cullarsi in una dialettica molle dell’identità europea, semplice contrappunto della realtà, invece assai consistente del mercato europeo.
Diventa urgente che l’Europa cessi di modellarsi su se stessa, sulle figure del suo passato. Bisogna usare una certa violenza al nome “Europa”.
Eὐρὡπη potrebbe simboleggiare un ricorso alle origini che apre al di là del presente.
Queste poche righe, lo so, hanno soltanto enunciato dei preliminari a una riflessione. Non ho voluto presentare nulla più di quanto la rende necessaria. Sotto il segno di questa necessità, si sono avviati, a Strasburgo, da alcuni anni, un certo numero di lavori e di azioni intorno al tema dell’Europa, su registri di tipo filosofico, letterario, artistico, all’università, al “Carrefour des Littératures”, e in altri luoghi ancora.
Questo non ha a che vedere tanto con il posto simbolico di Strasburgo, quanto, forse, al contrario, con una certa saturazione dei discorsi sull’Europa che qui è stata percepita più che altrove. Del resto l’Alsazia distilla un sapere privilegiato circa le identità: che essa valgono solo nella misura in cui sono rimesse in gioco, riaperte, riesposte, a ciò che non si lascia identificare.


* Questo testo è apparso in Le désir d’Europe, C.L.E./La différence, Paris-Strasbourg 1992. In traduzione italiana è apparso sulla “Rivista italiana di geofilosofia. Tellus”, aprile 1994 © Marco Baldino; © traduzione di Luisa Bonesio

[1] Cfr. Le désir d’Europe , cit., p. 50.


Particolare del cratere di Assteas ©Web


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